Poche sale aperte e pochi spettatori in sala

Danni economici incalcolabili per il settore – In Emilia-Romagna aperte solo una ventina di sale

Poche centinaia di biglietti staccati, poche migliaia di euro di incasso. Sì, le sale cinematografiche possono aprire ma, di fatto non aprono, se non in pochissimi casi (una ventina in tutta l’Emilia-Romagna), e se aprono lo fanno per spirito di “bandiera” non certo per gli incassi. Duecento e più giorni di chiusura hanno ridotto allo stremo un settore che, insieme ai teatri, senza pubblico non vive. E va salutata con piacere la riapertura  a Ravenna del Teatro Alighieri domenica  9 maggio con due concerti riapriranno le porte del Teatro  per l’anteprima della XXXII edizione di Ravenna Festival, accogliendo ciascuno 250 spettatori. “Siamo qui e crediamo nel messaggio della musica,” aveva detto Riccardo Muti in occasione del concerto di Capodanno, di fronte al Musikverein vuoto. Cinque mesi più tardi il Maestro e i Wiener sono di nuovo insieme e, per la prima volta quest’anno, di fronte al pubblico: accade a Ravenna, prima destinazione della tournée che proseguirà a Firenze e Milano. L’evento è reso possibile dal sostegno di Eni, partner principale del Festival.

I limiti per le riaperture

Ora la capienza massima consentita è del 50% di quella massima autorizzata e comunque non superiore a 500 spettatori al chiuso e 1000 all’aperto. Le cose potranno poi cambiare in seguito a dati, si spera, ulteriormente positivi sul contagio. In relazione all’andamento epidemiologico e alle caratteristiche dei siti, si potrà autorizzare la presenza anche di un numero maggiore di spettatori all’aperto, nel rispetto delle indicazioni del Cts e delle linee guida.  

Mancavano piani per lo spettacolo

Ad avvilire maggiormente una delle categorie più trascurate dai diversi Dpcm che si sono susseguiti in questi mesi è stata l’assoluta mancanza di un piano specifico. Il timore maggiore, come si è puntualmente verificato, era l’assenza di un preavviso di riapertura dato il ritorno di molte regioni al colore giallo in quanto la pratica e il lavoro dello spettacolo dal vivo richiede tempo e preparazione fisica, emotiva e mentale per riattivarsi. Ciò che viene preteso dal mondo dello spettacolo, dallo scoppio della pandemia, è un coinvolgimento da parte delle istituzioni nella discussione di una progettualità che includa anche cinema e teatri. Del resto, il mondo dello spettacolo ci aveva provato in ogni modo ad a sollecitare la possibilità di riaperture.

Le tesi dei giudici

Ma anche i giudici avevano insistito sulla linea di chiusura. E non era stato ammesso nessun blocco del Dpcm con il quale il 2 marzo scorso, per fronteggiare l’emergenza epidemiologica, è stata reiterata la sospensione totale degli spettacoli aperti al pubblico in teatri, sale da concerto, sale cinematografiche, live-club e in altri locali o spazi anche all’aperto nelle zone. Lo aveva deciso il Tar del Lazio con un’ordinanza con la quale ha respinto le richieste del Teatro Franco Parenti di Milano. I giudici hanno ritenuto che “le misure impugnate sono state adottate a seguito di una specifica e articolata istruttoria” e che “nell’ambito del sindacato consentito al giudice amministrativo su scelte di tale tipo, le determinazioni assunte non appaiono inficiate da manifesta illogicità e arbitrarietà”. In più, per il Tar “le questioni di legittimità costituzionale prospettate in relazione ai decreti legge che hanno autorizzato l’emanazione dei Dpcm non appaiono, sulla base dell’analisi propria della fase cautelare, suscettibili di favorevole apprezzamento, tenuto conto che: l’intervento legislativo ricade nella competenza esclusiva dello Stato a titolo di ‘profilassi internazionale’, che è comprensiva di ogni misura atta a contrastare una pandemia sanitaria in corso, ovvero a prevenirla; a fronte della diffusione del virus Sars-CoV-2 il legislatore è stato chiamato a fronteggiare una emergenza sanitaria di portata mondiale, correlata alla rapidissima diffusione del COVID-19, malattia in grado di compromettere non solo la salute dei singoli individui ma anche di determinare, a causa del rischio di ‘sovraccarico’ del sistema ospedaliero, un pericolo per l’incolumità pubblica; ciò ha richiesto, a causa della rapidità e della imprevedibilità di espansione del contagio, ‘l’impiego di strumenti capaci di adattarsi alle pieghe di una situazione di crisi in costante divenire”. Non solo, secondo i giudici “le misure via via introdotte, dall’inizio della pandemia, per contrastare e contenere il diffondersi del virus si sono basate sull’adozione di norme di rango primario e sono state adottate nel rispetto di principi di adeguatezza e proporzionalità al rischio effettivamente presente su specifiche parti del territorio nazionale ovvero sulla totalità di esso”. In ultimo, per il Tar “a fronte del grave quadro epidemiologico, l’interesse di cui è portatore l’esponente deve considerarsi recessivo rispetto all’esigenza di tutelare la salute pubblica”.